Le ragioni per un salario minimo
Sigla
Un caldo che si taglia a fette copre Roma come un piumone invernale, quello militare che aveva la nonna. Nei palazzi del potere la politica si scioglie come una palla di gelato, il dibattito pubblico sembra un capo fuori stagione. Qualche polemichetta passa distratta alla tv, un certo tipo di talk estivi ha uno strano potere rinfrescante sulla mia percezione della canicola. Vale la pena, tra queste e a mia discrezionalissima opinione, approfondire quella sul salario minimo. Perché il caldo è una rottura di palle, ma lavorare ed essere comunque poveri lo è ancora di più.
È diverso tempo che se ne discute ma non si è mai votato per un provvedimento del genere. I sostenitori fanno leva sul fatto che solo una minoranza di paesi UE non ha il salario minimo, ma soprattutto credono che sia uno strumento utile a sollevare dall’inadeguatezza economica alcuni contratti. I detrattori del salario minimo lo ritengono uno strumento inadeguato e limitativo nei confronti della libera impresa. Spesso alla visione di un salario minimo viene contrapposta quella di un generico innalzamento degli stipendi, per la logica del “non è il minimo che dev’essere alzato ma bisogna aumentare la ricchezza diffusa”.
La proposta delle opposizioni
Innanzitutto il dibattito si è riacceso dopo l’accordo di giugno del Parlamento e del Consiglio europeo su una direttiva per il contrasto alla povertà lavorativa. Da qui un accordo tra la maggioranza delle forze di opposizione al governo per presentare le rispettive proposte di legge, e dunque la riapertura del dibattito a livello nazionale. La sostanza è questa: l’attuale strumento per definire un salario minimo orario su un determinato contratto è la contrattazione collettiva tra sindacati e i rappresentanti dei vari settori. Siccome le contrattazioni sono lunghe, vengono rimandate spesso, hanno passaggi complessi, la proposta più o meno unanime è quella, almeno, di stabilire per legge che nessuna prestazione lavorativa debba valere meno di 9 euro netti all’ora.
Cosa ne pensa il governo
La maggioranza non mostra nessun interesse rispetto all’eventualità di un salario minimo, rispondendo a vario modo ma anteponendo sempre altre priorità. Si segnala giustamente il commento del capo di Forza Italia e vicepremier Antonio Tajani che dice: il governo vuole che i lavoratori guadagnino bene, e non che abbino tutti lo stipendio uguale come al tempo dell’Unione Sovietica. A parte la comprovata inesattezza storica (approfondita in modo interessante nell’articolo linkato), si capisce chiaramente quale sia il gradimento rispetto a un eventuale intervento dello Stato per regolare i contratti.
Ci sono obiezioni meno ideologiche che hanno comunque il loro peso sul dibattito, come ad esempio le differenze economiche strutturali tra sud e centro-nord. Gli occupati con contratto a termine (quindi precari) al sud sono il 22,9% del totale, contro il 14,7% del centro-nord. In Italia ci sarebbero 3 milioni di lavoratori che percepiscono meno di 9 euro all’ora, 17,2% del totale: al centro-nord rappresentano il 15,9% del totale, al sud ben il 25,1%. Dunque è chiaro che da una legge sul salario minimo ha da guadagnarci maggiormente il meridione. Fatto non causerebbe danno a nessuno, eppure viene ciclicamente tirato in ballo come obiezione alle’eventuale iniquità implicita dello strumento. Tanto che all’interno dell’opposizione c’è chi a sua volta propone un salario minimo stabilito su base regionale.
Diversità di vedute
Tornando ai numeri, l’inflazione ha provocato una perdita del potere d’acquisto al sud del 8,4%, e al nord del 7,5%, il che ci riporta al discorso delle diseguaglianze. Tra le critiche alla proposte delle opposizioni (che provengono perlopiù de membri della stessa opposizione) spicca la mancanza di un meccanismo di indicizzazione dei salari a seconda dell’andamento dei prezzi (visto mai che tra 5 anni i 9 euro di paga minima dovessero essere come i 7 di oggi).
Ci sono, infine, grosse contraddizioni anche all’interno dell’universo sindacale rispetto a una proposta di salario minimo. La CISL, ad esempio, ad oggi è contraria poiché, a detta dei suoi rappresentanti, la maggior parte dei contratti di lavoro è coperta dai contratti collettivi, che sono l’unico vero strumento per aumentare gli stipendi. Questo è vero, ma bisogna anche tener conto di che peso ha in certe contrattazioni il sindacato. Prendiamo, ad esempio, il rinnovo del Ccnl della Vigilanza Privata e dei Servizi Fiduciari. Il contratto è scaduto da 8 anni e costringe 70 mila lavoratori a percepire tra 1000 e 1300€ per 180-190 ore di lavoro mensile. Addirittura diversi tribunali hanno definito questa retribuzione contraria all’art. 36 della Costituzione, che sancisce il diritto a una retribuzione proporzionata per un’esistenza libera e dignitosa. Ora, se i sindacati avessero un forte potere contrattuale non vedo quali ostacoli ci sarebbero rispetto alla soluzione della faccenda. Ma la realtà non è questa, infatti per farsi ascoltare le sigle Filcams-Cgil e Fisascat-Cisl hanno dovuto avviare una class action contro l’attuale contratto in vigore, quindi contro un documento firmato anche da loro. I sindacati avrebbero un ultimo decisivo strumento per esercitare il proprio potere contrattuale: il ritiro della firma per far decadere la validità del contratto. Questa però è una sorta di linea rossa che non viene ancora superata, per non creare un precedente e inasprire la contrattazione degli oltre 20 contratti nazionali ancora da ridiscutere (e far trascorrere altri interminabili anni).
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Dunque la contrattazione collettiva non è davvero lo strumento che in breve può consentire di adeguare tutti gli stipendi a delle condizioni decorose. Senza dimenticare quella quota di prestazioni che non sono coperte dai contratti nazionali. Sicuramente un salario minimo fungerebbe sia da stimolo alla firma dei nuovi contratti nazionali, sia a migliorare la condizione salariale di una certa fetta di lavoratori. Nonostante qualcuno abbia provato a farla passare come una proposta bolscevica, è in realtà del tutto in linea con le richieste dell’Europa, che nella sua direttiva non specifica in alcun modo come i paesi debbano regolamentare l’equità delle retribuzioni (ma invita a farlo). Si sarà notato, però, che il dibattito su come si debba fare il salario minimo è soprattutto interno alla frangia politica che ne parteggia per l’attuazione. Al netto di virtù e dubbi non si tratta di una proposta che diventerà legge molto presto, visto che l’attuale esecutivo è quantomeno disinteressato all’ipotesi, e lascia che il sole sciolga anche questa voglia di equità.
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