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Già alle ore 12 di domenica 8 giugno s’era capito come sarebbe andata a finire: referendum nullo per quorum non raggiunto. Il primo exit pool annunciato proprio all’ora di pranzo diceva di un’affluenza a poco più del 7%. Al termine della votazione si supererà di poco il 30%.
Dalle ore 12 in poi, dunque, il lavoro da presidente di seggio che mi ero procurato si è trascinato in una formalità durata per un’altra trentina d’ore circa. Culminata, la formalità, con lo scarico delle schede votata nel centro di smistamento della città, la Fiera di Roma. Nell’ala di un enorme hangar facevano mostra di sé infiniti bustoni colmi di schede votate, pronte per l’imminente macero. Depositare i voti è stata un’operazione molto simile a gettare la monnezza (per la quale, fortunatamente, non impiegherei tutto quel tempo manco a gettare un pezzo alla volta nell’isola ecologica). Con sincerità descriverei questa esperienza come la più grande spinta all’astensione che abbia mai sentito nella mia vita.
Anche il deludente risultato referendario non è stato da meno. Nessuno dei 5 quesiti si è avvicinato al quorum, nei primi quattro quesiti il sì ha prevalso con percentuali comprese tra l’87 e l’89%, mentre il no sì è attestato tra il 10 e il 12%. Il quinto quesito, sul diritto alla cittadinanza, ha ottenuto il 65,49% di voti favorevoli e il 34,51% di contrari.
Rispetto alle reazioni, Landini della CGIL ha dichiarato che non pensa alle dimissioni, Schlein del PD ha detto che nonostante la delusione per il risultato i votanti dei referendum sono comunque stati di più di quelli che hanno votato per Meloni e alleati nel 2022. Una riflessione che ha sollevato dubbi e ilarità, poiché pur volendo trovare una qualche consolazione nell’aver superato questa soglia ideale dei 12,3 milioni di votanti (gli elettori, appunto, di Meloni e co.), non tutti hanno votato per il sì. Anzi, per il quinto quesito quasi un terzo di chi ha votato ha messo la X sul no.
L’idea generale che si possa pensare a chi ha votato, e votato sì, come una comunità di persone pronta a riversarsi nuovamente alle urne per votare il PD, M5S e altri protagonisti dell’opposizione di governo, è molto forzata. Però sottolineerei il fatto che di fronte a una proposta unitaria, quando le forze di opposizione si mettono insieme come in questo caso (con delle distanze, ma comunque insieme) l’elettorato risponde. In questo caso non quanto si sperava, ma comunque 14 milioni di voti non si possono ignorare.
Un’altra questione è quella legata al referendum come strumento di voto ormai inutilizzabile. Su questo non solo sono arrivate sottolineature dal Comitato promotore (CGIL e gli altri) ma dalla stessa maggioranza di governo, che propone di alzare il numero di firme da raccogliere per presentare un referendum da 500mila a un milione. Intanto è partita già una campagna di raccolta firme per votare sulla modifica del referendum stesso, cioè per l’abolizione del quorum.
L’impressione è che se davvero ci trovassimo a votare un referendum per la modifica del referendum abrogativo, nuovamente non si raggiungerebbe il quorum. E non è solo facile ironia, ma una costatazione basata sugli ultimi quesiti sottoposti al popolo. I 4 referendum sul lavoro avevano una struttura molto tecnica, di difficile comprensione. Prendiamo ad esempio il primo, quello sul reintegro sul posto di lavoro per licenziamento ingiusto. Attualmente il reintegro non c’è e si ricevono 36 mensilità di buonuscita. Con la vittoria del sì saremmo tornati all’articolo 18 modificato dalla Fornero: possibilità di reintegro, o 24 mensilità di buonuscita.
Non è scontato che una persona maturi una preferenza tra una scelta e l’altra, è anzi complesso che la persona comprenda perfettamente le ricadute concrete di abrogare oppure no. I 4 quesiti sul lavoro hanno ricevuto un plebiscito di sì, potremmo dire nel rispetto della linea dettata da chi i referendum li ha proposti (e quindi, in buona parte dei casi, senza approfondire troppo). Il quinto quesito, sulla cittadinanza, che aveva una forma molto più comprensibile, ha avuto un esito molto più equilibrato.
Questo per dire che il tentativo, fallito, di questi referendum è stato mettere in mano al popolo delle decisioni più adatte a un parere tecnico. Decisioni che di solito prende la politica.
E questo era, secondo me, il senso dell’operazione, che non è stato compreso o non è stato ritenuto meritevole: dire alla politica di intervenire su certi temi. Le morti sul lavoro? Forse il quesito n.4 non sarebbe stato al 100% risolutivo. Estendere la responsabilità della sicurezza anche all’impresa appaltante, non sapremo mai se avrebbe funzionato. Tuttavia resta il tema degli oltre 1000 decessi l’anno sul luogo di lavoro, e la politica non può ignorarlo.
Un’ultima nota sulla questione referendum: Luigi Sbarra, che è stato segretario del sindacato CISL fino allo scorso febbraio, è stato nominato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega al Sud. Il suo sindacato, tra i 3 più grandi del paese, negli ultimi anni si è dissociato dagli scioperi, dalle contestazioni, e anche da quest’ultimo referendum. Premio fedeltà.
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